“L’Enpam sta concretizzando un progetto che consentirà ai medici di base di aggregarsi in studi più strutturati, organizzati e attrezzati, pur continuando a garantire una presenza realmente capillare e flessibile sul territorio (studi “spoke”)”.
Lo ha detto il presidente dell’Enpam, Alberto Oliveti, introducendo la ricerca Il Termometro della Salute, promossa dall’Osservatorio Salute, Legalità e Previdenza Eurispes-Enpam.
L’indagine, presentata mercoledì, è tornata a proporre, a quasi cinque anni dalla sua prima uscita, un tentativo di complessiva lettura della realtà e delle prospettive del Sistema Sanitario Nazionale.
Come sottolinea il Presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara: «Questo lavoro di ricerca vuole occuparsi di ciò che l’impatto del Covid-19 ha generato nella percezione del Sistema Sanitario Nazionale e sulla sua programmazione nel dopo-Covid. Nel nostro Paese, così come nel resto del mondo, i temi della salute sono infatti balzati al vertice dell’attenzione dei cittadini e dei governi, travalicando i tradizionali contorni delle politiche di settore e imponendosi come snodo centrale delle stesse politiche economiche. Basti pensare alla “rivoluzione” nella Ue rappresentata dalla parziale condivisione del debito dei paesi aderenti, che ha portato al varo del Next Generation Eu e ai Piani nazionali di resilienza. L’Osservatorio Eurispes-Enpam ritiene che sia, ora, possibile andare oltre le specifiche tematiche legate alla pandemia per affrontare la riforma del Servizio Sanitario Nazionale che, proprio dai limiti mostrati anche nel recente passato e dai provvedimenti in risposta al Covid-19, prende le mosse per una ambiziosa opera di riforma. Ambiziosa, ma problematica e irta di contraddizioni ed incognite. Se il Paese ha tenuto, se la Sanità pubblica ha svolto la sua decisiva e riconosciuta funzione, se il ruolo della salute nel quadro più generale di una società democratica e avanzata è tornato in prima pagina, sarebbe un grave errore non concentrare ora il massimo sforzo per rimettere, con la riforma, la Sanità definitivamente al centro delle politiche volte alla crescita del Paese».
«Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – dichiara il Presidente dell’Enpam, Alberto Oliveti – interviene sulla Salute con la prima componente della Missione 6, ridefinendo i cardini per rilanciare l’assistenza sanitaria territoriale con un modello organizzativo centrato su reti di prossimità, strutture e telemedicina. A tal fine, sono investite importanti risorse nelle Case di Comunità e nel sostegno all’assistenza domiciliare, nell’assunto che è la “casa dell’assistito” il primo luogo di cura. È evidente, però, che le 1.400 Case di comunità previste dal Piano non assolveranno alla stessa funzione delle decine di migliaia di studi medici attualmente attivi in Italia. Tra l’abitazione del cittadino e le Case di Comunità programmate (una ogni 42mila abitanti), infatti, si creerà un vuoto di assistenza, se non si imposterà al contempo un progetto di rilancio dell’attuale rete degli studi di medicina generale. In questo senso, l’Enpam sta concretizzando un progetto che consentirà ai medici di base di aggregarsi in studi più strutturati, organizzati e attrezzati, pur continuando a garantire una presenza realmente capillare e flessibile sul territorio (studi “spoke”). Studi che dovranno essere allestiti con attrezzature avanzate per sfruttare soluzioni di telemedicina. Si tratta di un’iniziativa velocemente realizzabile e consensuale, essendo promossa dalla stessa categoria che deve attuarla. Crediamo che una volta realizzata, possa essere altamente efficace per il miglioramento dell’assistenza sanitaria territoriale secondo gli obiettivi del Pnrr».
Infine, il Presidente Osservatorio Eurispes-Enpam Salute, Legalità e Previdenza, Carlo Ricozzi, spiega: «Il Tavolo di Lavoro ha condotto un monitoraggio permanente del settore, non trascurando di valutare le implicazioni straordinarie del Covid-19, a partire dall’anno 2020. I temi affrontati in questo Rapporto sono tra i punti di forza e di debolezza del nostro Sistema Sanitario Nazionale: le scelte politiche, i rapporti tra la sanità pubblica e quella privata, il capitale umano e la formazione universitaria. Inoltre, abbiamo voluto dedicare uno spazio, nella forma dell’intervista, alle considerazioni di autorevoli studiosi e al punto di vista degli operatori sanitari, medici e infermieri in servizio negli ospedali, nei poliambulatori e negli studi di medicina generale. Il tema del contrasto agli illeciti in materia sanitaria è stato invece affrontato in due documenti appositamente elaborati dalla Guardia di Finanza e dall’Arma dei Carabinieri, nei quali vengono descritte le metodologie di monitoraggio e controllo e la rendicontazione dei risultati operativi. Nelle intenzioni dell’Osservatorio, la pubblicazione di questo lavoro di ricerca è rivolta ad alimentare il dibattito, mai sopito in verità, su uno degli aspetti chiave della giustizia sociale: l’accesso alle cure indipendentemente dal censo».
IL TERMOMETRO DELLA SALUTE: I TEMI APPROFONDITI DALLA RICERCA
Il depotenziamento del Ssn. Il Pil investito in Sanità più di un terzo inferiore a Germania e Francia
Per almeno 15 anni il Fondo Sanitario Nazionale ha subìto successive decurtazioni nello spirito delle spending review avanzate per assestare i conti pubblici. Ciò ha prodotto un depotenziamento progressivo delle capacità prestazionali e il declassamento del nostro Paese nelle classifiche mondiali del rapporto tra investimento in sanità pubblica e Pil. Nel 2019, anno spartiacque perché non ancora toccato dalla pandemia, la quota del Pil riservata alla Sanità era scesa al 6,2 per cento, alla quale i cittadini aggiungevano un 2,2 per cento di spesa diretta. La media nell’Europa a 27 era rispettivamente il 6,4 per cento e 2,2 per cento, ma in Germania 9,9 per cento e 1,7 per cento, in Francia 9,4 per cento e 1,8 per cento, in Svezia 9,3 per cento e 1,6 per cento. Ciò significa che l’investimento pubblico in Sanità in Germania e in Francia è di più di un terzo superiore a quello italiano.
Dunque, dopo il triennio “straordinario”, che ha visto appostare le risorse necessarie per affrontare la pandemia e la campagna di vaccinazioni (per altro, solo in parte ad oggi erogate), con l’ultima Legge di stabilità la quota del Pil riservata al Ssn è tornata a scendere, tendendo a quel minimo storico collocato intorno al 6 per cento. In un decennio sono stati sottratti oltre 37 miliardi di euro alla Sanità pubblica, di cui circa 25 miliardi nel periodo 2010-2015, in conseguenza di “tagli” previsti da varie manovre finanziarie e oltre 12 miliardi nel periodo 2015-2019, in conseguenza del “definanziamento” che, per obiettivi di finanza pubblica, ha assegnato al Ssn meno risorse rispetto ai livelli programmati (dati Fondazione Gimbe).
L’invecchiamento del capitale umano e il precariato: un problema che sta per esplodere
Per medici, infermieri e altre figure professionali di supporto al Ssn, il mancato turn-over e il reiterato blocco delle assunzioni hanno prodotto anche sacche di precariato inconciliabili con la continuità assistenziale. Ma, prima di tutto, ha generato il forte invecchiamento del capitale umano sfociato in un alto numero di pensionamenti. Questo fenomeno, che già ha eroso il numero dei professionisti, è destinato a esplodere nei prossimi anni e investe anche l’area della sanità privata.
Nel 2019 i medici in Italia erano presenti in quota pari a 4,05 su 1.000 abitanti; un dato questo di poco inferiore alla Spagna (4,4) e alla Germania (4,39), e superiore alla Francia (3,17). La quota di infermieri (circa 6,16 ogni 1.000 abitanti; con un 1,4 infermieri per ogni medico) colloca l’Italia agli ultimi posti della classifica dei paesi Ocse.
L’“anagrafe” della classe medica parla chiaro: molti professionisti mediamente attempati, spesso anziani, e pochissimi giovani. Più della metà dell’intera classe medica italiana (56 per cento) in maggioranza i medici tra i 55 anni e gli over 75 tra un quinquennio non saranno più operativi.
I medici “giovani”, ovvero sotto i 35 anni, sono in Italia solo l’8,8 per cento, contro percentuali superiori al 30 per cento in Gran Bretagna, Olanda e Irlanda, o comunque superiori al 20 per cento in Germania, Spagna e in Ungheria. La Francia, che per gli under 35 mostra un dato meno lontano dal nostro, presenta comunque un 15,7 per cento di under 35: quasi il doppio dell’Italia.
L’invecchiamento dei medici impatta in particolare sulla medicina di base.
Senza turnover, in 10 anni si verificherà una grave carenza di infermieri
Se in una struttura ospedaliera operano, ad esempio, 10 medici specialisti, e uno di questi va in pensione senza essere sostituito, si assisterà ad una riduzione parziale dell’attività e/o ad un prolungamento dei tempi che il cittadino-paziente dovrà attendere per l’erogazione di una determinata prestazione sanitaria. Ma quando, invece, il rapporto è 1 a 1, ‒ come nel caso della relazione tra medico di medicina generale e assistito ‒, e questo medico va in pensione, essendo i suoi colleghi già saturati dal numero massimo di assistiti, quella che si profila è la pratica impossibilità di erogare un servizio.
Analizzando i dati Agenas, emerge che nel triennio 2019-2021 si sono “persi” in Italia 2.178 medici di medicina generale e 386 pediatri di libera scelta: in percentuale più del 5 per cento. Dal momento che ogni medico di base assiste una media di cittadini superiore ai 1.000 e che i medici più anziani spesso sfiorano o addirittura sforano il massimale di 1.500 assistiti, ciò ha significato che circa 3.000.000 di cittadini sono rimasti senza medico di base.
Anche per le professioni infermieristiche l’età media degli attuali infermieri attivi è di circa di 47 anni, ma ogni 6 mesi questa età media si alza di una annualità. In un decennio, dunque, a meno di un forte turn-over, la già denunciata penuria muterebbe in una vera e propria carestia. Per gli operatori nella sanità pubblica, il blocco del turnover nelle Regioni in piano di rientro e delle misure di contenimento delle assunzioni hanno comportato la diminuzione del personale a tempo indeterminato.
Al 31 dicembre 2018 era inferiore a quello del 2012 per circa 25.000 lavoratori (circa 41.400 rispetto al 2008). Tra il 2012 e il 2017, il personale (sanitario, tecnico, professionale e amministrativo) dipendente a tempo indeterminato in servizio presso le Asl, le Aziende Ospedaliere, quelle universitarie e gli IRCCS pubblici è passato da 653mila a 626mila unità, pari ad una flessione di poco meno di 27mila unità (4 per cento). Nello stesso periodo il ricorso a personale con un profilo di impiego flessibile è cresciuto di 11.500 unità, riuscendo solo in parte a compensare questo calo.
Offerta sanitaria, il Paese è spaccato
I tassi medi annui di turn-over sono molto diversi tra le Regioni del Nord e quelle del Centro-Sud. Toscana, Emilia-Romagna e Veneto anche negli anni duri della spending-review sono state in grado di sostituire integralmente il personale andato in quiescenza e addirittura ad aumentarlo. La Lombardia ha sostanzialmente mantenuto gli organici.
Il Piemonte li ha leggermente diminuiti. Tutte le altre Regioni sono accomunate dal fatto di essere ancora sotto piano di rientro e di aver presentato un tasso medio di turn-over, tra il 2012 e il 2017, inferiore al 70 per cento. Dal 2022 al 2027 il Sistema Sanitario Pubblico perderà ogni anno una media di 5.866 medici dipendenti, e una media di 2.373 medici di medicina generale.
Per l’intero quinquennio vanno calcolate le uscite di 29.331 medici dipendenti, e di 11.865 medici di base. Rispetto agli attuali organici, per entrambi i comparti si tratta di perdite di poco inferiori al 30 per cento. Anche i 21.050 infermieri più anziani del servizio pubblico sono destinati a lasciare vuoto il loro posto di lavoro nel prossimo quinquennio “per raggiunti limiti di età”.
Si consideri inoltre che in molti casi si tratta di un lavoro usurante e che non è da escludere che si producano molti prepensionamenti che aggreverebbero la perdita di quasi il 10 per cento degli addetti. Inoltre, i dati sulla remunerazione di medici specialisti e infermieri ospedalieri in rapporto al Pil pro capite indicano che il medico italiano ha un reddito pari a 2,4 volte quello medio del Paese, mentre in Gran Bretagna il rapporto sale a 3,6, in Germania a 3,4, in Spagna a 3,0, in Belgio a 2,8.
Difformità regionali e liste d’attesa. La mobilità sanitaria riguarda quasi 1,5 milioni di cittadini
Gli italiani spendono “di tasca propria” in salute per prestazioni e farmaci in tutto o in parte (pagamento di un ticket) non coperti dal Ssn annualmente quasi 40 miliardi di euro, raggiungendo una quota del Pil superiore al 2 per cento. A ciò si aggiunga l’intensificarsi della “mobilità sanitaria”, generato dalla necessità di rivolgersi a strutture pubbliche di altre Regioni per ottenere prestazioni del Ssn di fatto non erogabili nel territorio di residenza a causa dei deficit strutturali della sanità regionale di appartenenza.
Questa “mobilità sanitaria” nel triennio del Covid si è contratta, a causa delle restrizioni nella libera circolazione e dell’appesantimento della maggior parte delle strutture sanitarie pubbliche; ma considerando i dati del 2018 emergono forti squilibri territoriali relativamente ai pazienti “in “ingresso” e in “uscita” tra le diverse Sanità regionali.
Le Regioni con un saldo attivo sono Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana, e quelle che invece depauperano il loro budget sanitario sono quasi tutte le rimanenti Regioni centro-meridionali. Inoltre, gli importi versati dalle Regioni che “cedono” pazienti a quelle in grado di erogare le prestazioni, determinano una ulteriore difficoltà in budget sanitari già compressi dai piani di rientro. All’opposto, le Regioni che erogano molte prestazioni a cittadini non residenti possono contare su di un over-budget che rende possibili investimenti in strutture e personale, di cui beneficiano in primo luogo i cittadini residenti. In termini di efficienza, la “forbice” tra alcune Regioni del Nord e quelle del Centro-Sud, inevitabilmente si allarga.
Ai due estremi, nel 2018 la Regione Lombardia ha riscontrato un saldo positivo di quasi 809 milioni di euro, mentre la Regione Calabria un deficit di quasi 320 milioni di euro e la Regione Campania di più di 302 milioni. Anche da ciò derivano impatti quali quello del mancato turnover del personale medico e infermieristico Oltre all’appesantimento dei “conti economici” delle singole sanità regionali, la “mobilità sanitaria” fa emergere la gravità del fenomeno rappresentato da quasi 1,5 milioni di cittadini che nel 2018 per curarsi hanno dovuto rivolgersi al di fuori della regione di residenza.
Le serie storiche delle indagini campionarie dell’Eurispes evidenziano un trend da cui emerge che un quarto delle famiglie italiane denuncia difficoltà economiche relativamente alle prestazioni sanitarie. Relativamente al 2022 questa difficoltà si conferma maggiore soprattutto per i cittadini delle regioni meridionali (28,5 per cento) e delle Isole (30,5 per cento).
Inoltre, un terzo dei cittadini (33,3 per cento) afferma di aver dovuto rinunciare a prestazioni e/o interventi sanitari per indisponibilità delle strutture sanitarie. I dati del 2023 confermano questo andamento e lo indicano in aumento.
Confronto Italia e Germania
Il confronto tra Italia e Germania in termini di reazione alla prima ondata della pandemia è importante per la vicinanza territoriale e l’interdipendenza tra due paesi, ma soprattutto per il differente approccio adottato dai due paesi nel far fronte all’emergenza sanitaria. Dai dati emerge che il ricorso all’ospedalizzazione in Italia è stato ben più diffuso rispetto alla Germania.
L’Italia ha favorito l’espandersi del sistema privato, sostenendo in questo modo un alto livello di qualità delle prestazioni, favorendo però al tempo stesso una crescente centralità della cura ospedaliera a discapito di un’assistenza più integrata a livello territoriale. Quello tedesco non può essere assunto come modello, ma in alcune importanti aree, soprattutto in riferimento alla medicina di territorio, può offrire alcune importanti indicazioni anche per il sistema italiano.
Sanità pubblica e territorio: confronto tra Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna
I sistemi sanitari di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono da considerare tra i migliori in Italia e nell’intera Unione europea. Questi sono stati presi da modello nel Rapporto per individuarne le differenze, anche strutturali, che li hanno spinti ad adottare strategie diverse che hanno manifestato una diversa efficacia nel contenimento della diffusione dei contagi nel corso della pandemia.
Il sistema sanitario della Lombardia ha affrontato la diffusione della malattia privilegiando una assistenza incentrata sul ricovero ospedaliero, e meno su di una rete di assistenza territoriale che permettesse di mantenere e seguire i pazienti presso il proprio domicilio.
Al contrario, invece, Veneto ed Emilia Romagna hanno mantenuto stabile l’integrazione tra le tre tipologie di assistenza (Terapia Intensiva, Ricoveri Ordinari, Ricoveri Domiciliari), la qual cosa indica che questi due sistemi dispongono strutturalmente di una politica sanitaria meglio bilanciata fra le diverse tipologie di assistenza.
Questo differente orientamento è particolarmente evidente nel confronto con il numero di casi trattato tramite percorsi di assistenza domiciliare nelle diverse Regioni. Il Veneto dimostra come il trattamento dei pazienti presso il proprio domicilio sia un principio base della propria offerta sanitaria.
Gli oltre 3.500 casi trattati (dato 2017) indicano come le politiche di integrazione avanzate nel corso degli anni si siano poi manifestate in quella che oggi genera una particolare proattività del territorio, all’opposto della Lombardia, per la quale la centralità del sistema ospedaliero ne ha fortemente contenuto la crescita.
I 1.500 casi lombardi sono nettamente inferiori non solo nei confronti del Veneto, ma anche del Molise, della Toscana e dell’Emilia Romagna.
Le criticità del progetto di riforma
L’obiettivo programmato con il Dm 77 dell’apertura in pochi anni di circa 1.350 Case della Comunità comporta uno sforzo logistico enorme che difficilmente la maggior parte delle Sanità regionali sarà in grado di sopportare. Nel corso del 2022 si è assistito a molte “inaugurazioni” di Case della Comunità, ma in realtà si è trattato di strutture preesistenti (poliambulatori, case della salute).
Se il Sistema sanitario nazionale non sarà messo in grado di programmare e poi assorbire le necessarie professionalità, le Case e gli Ospedali della Comunità rimarranno vuote; mentre la crisi del decisivo comparto della medicina generale si avviterà ulteriormente, gli ospedali continueranno a degradarsi, l’universalità della sanità pubblica continuerà a deperire, si apriranno ulteriori autostrade per la sanità privata e curarsi diverrà una questione di censo.
Anche dal punto di vista “culturale”, l’attenzione che il Dm 77 dedica alla telemedicina e alla ottimizzazione delle reti di comunicazione in àmbito sanitario, si scontra con la realtà di molte Regioni per le quali il Fascicolo sanitario elettronico è ancora uno strumento sostanzialmente sconosciuto.
L’impegno dell’Osservatorio a monitorare l’avanzamento della riforma
La Missione 6 del Pnrr e la piena attuazione del Dm 77 sulla medicina territoriale prevedono degli step temporali già fissati da oggi al 2026, dal rispetto dei quali dipende l’erogazione delle successive tranche del Next Generation Eu.
Da qui nasce l’impegno dell’Osservatorio Eurispes-Enpam a seguire nei prossimi anni l’intero processo di attuazione della riforma analizzando i passaggi di avanzamento di quanto previsto dal Pnrr e la riorganizzazione della medicina territoriale, soprattutto in termini di qualità degli interventi.
In questo modo sarà possibile valutarne i livelli di attuazione, segnalare le eventuali esigenze di messa a punto e, complessivamente, verificarne l’aderenza all’Articolo 32 della Costituzione su cui si fonda un Servizio sanitario pubblico e universalistico che realizza il diritto alla salute per tutti: una Sanità che deve continuare a rappresentare, come nel passato, un pilastro essenziale della convivenza sociale.