Giovedì scorso si sono tenuti gli Stati generali della previdenza dei professionisti. Un filo di parole che iniziano per C (come Casse) aiuta a fare da conduttore.
Parole importanti iniziano con la C. La coscienza, che è l’esperienza della conoscenza, la critica. Ed è quella che ci porta a riconoscere la capacità manifestata dalle Casse, in questi trent’anni di privatizzazione, grazie a un operato guidato da cervello e cuore.
Abbiamo vissuto un recente contesto di crisi, caratterizzato da altre quattro C: il Covid, una zoonosi legata a uno spillover che non è detto abbia concluso i suoi effetti; i conflitti, ucraino e israelo-palestinese, i costi, spinti dall’inflazione prima e dai tassi poi; e poi il clima, con le sue emergenze.
A queste quattro C, di Covid, conflitti, costi e clima, io ne aggiungo qualcun’altra.
C’è quella della crisi delle libere professioni, del sapere intellettuale.
L’impatto tecnologico della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale sicuramente porterà cambiamenti; si sommi, per il sistema previdenziale, l’effetto dell’aumento delle prestazioni, stante l’età media degli iscritti e dei pensionati.
Guardando al quadro più generale, vediamo che la finanziarizzazione dell’economia sta portando alla C di concentrazione di ricchezza. D’altro canto la riglobalizzazione asimmetrica sta inducendo un problema di competizione interna (gli Stati europei competono fra loro, anziché fare fronte comune di fronte alla competizione globale, come ha sottolineato Mario Draghi in una recente relazione). E poi c’è un’altra C che preoccupa: quella legata alla cybersicurezza, che fa venire in mente quelle di Cremlino e Cina.
Pensiamo ad attacchi che coinvolgono i cloud e le criptovalute.
Di fronte a queste sfide occorre il coinvolgimento di tutti. Non a caso il tema degli Stati generali era proprio “Cultura della transizione: le libere professioni per il Paese”. Una cultura che deve essere individuale, professionale, fatta di competenze, conoscenze, attitudini, buone prassi e relazioni.
Per quanto riguarda l’attività professionale si fa sempre più insistente la C di conciliazione tra vita e lavoro. Quasi a tradire un’antitesi, mentre per la nostra Costituzione, la Repubblica stessa è fondata sul lavoro. Un lavoro che dà dignità all’uomo, il quale anche in questo realizza la sua personalità.
Il lavoro va reso più appagante, e non è solo una questione economica. Pensiamo alle facoltà di medicina, dove tanti vogliono entrare, ma da cui chi vi esce non è particolarmente disposto a sopportare il carico professionale della nostra sanità; forse per questo tanti vanno all’estero. Non convince, peraltro, la proposta di abolire il valore legale dei titoli di studio per perseguire una migliore qualità formativa universitaria. Se il paziente ha la febbre, la soluzione non è buttare via il termometro: bisogna invece capire la causa. La laurea è un attestato pubblico di acquisizione di conoscenze e competenze: forse per difenderne l’autorevolezza, andrebbe pensato un meccanismo periodico di rinnovo della validità.
Allo stesso tempo il professionista deve avere cognizione, consapevolezza e coscienza del proprio stato, anche collettivo. I portatori del sapere intellettuale devono essere consci delle sfide da affrontare per portare una crescita al Paese.
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