“Fare il medico mi ha permesso di sentirmi realizzata, soprattutto nella fase della maturità. Le energie e l’entusiasmo però, arrivata all’età della pensione, non erano più quelle di quando avevo cominciato”.
A raccontarcelo è Adriana Parente, medico laboratorista, nata a Livorno il 21 luglio di 100 anni fa.
La dottoressa Parente, ancora lucida e combattiva, ricorda la sua attività professionale con piacere, ma senza nostalgia. E saluta il sorpasso delle donne medico sui colleghi maschi senza entusiasmi, quasi ignara che sono donne come lei che – affrontando pregiudizi, sacrifici e andando controtendenza – hanno contribuito ad aprire la strada a tante colleghe più giovani.
IL SALVATORE DELLE MADRI
Adriana è cresciuta a Fiume, dove si era trasferita insieme alla famiglia nel 1930 seguendo il padre, ufficiale dell’esercito.
L’interesse per la Medicina nacque in gioventù, anticipata dagli studi al liceo scientifico e dalla letteratura e dalle cronache dell’epoca, che spesso avevano al centro vicende legate ai protagonisti e alle ultime scoperte in ambito medico.
In particolare, Adriana rimase colpita dalla storia di Ignác Fülöp Semmelweis, il cosiddetto “salvatore delle madri”, il medico ungherese celebre per il fondamentale contributo alla prevenzione della febbre puerperale.
STORIA E STORIA
La vicenda di Adriana, invece, è segnata inevitabilmente dal periodo storico in cui è nata e cresciuta, contraddistinta dall’ascesa del fascismo e dalla II guerra mondiale.
La strada che l’ha portata a diventare medico si intreccia con la Storia. Al punto che – ci dice la figlia Nicoletta, che l’assiste durante l’intervista – ancora oggi ci tiene a essere indicata come “profuga fiumana”.
“All’epoca – ricorda – la più grande ambizione era di poter vestire la divisa dei Guf, i Gruppi universitari fascisti. Io non avevo un motivo specifico perché desiderassi diventare un medico. Quello più forte è stato quello di elevarsi rispetto alla massa in cui era precipitata la gioventù della mia epoca”.
MEDICINA IN GUERRA
Quel che è certo è che, pur avendo già deciso di iscriversi due anni prima, a causa dello scoppio del conflitto, all’università ci era entrata solo nel 1944, a Padova.
Insieme lei si iscrisse anche il fratello – di undici mesi più giovane – che riuscì a concludere il liceo classico un anno in anticipo, per potere frequentare l’ateneo insieme a lei.
A quell’epoca la vita non è facile e i due ragazzi sono accuditi dalla sola madre, perché nel frattempo il padre – nel 1941 – era caduto prigioniero di guerra.
Adriana però è una tipa tosta. Al termine del conflitto, nel 1946, è costretta ad abbandonare la città dove si era trasferita all’età di sei anni.
Grazie alla borsa ottenuta in qualità di profuga fiumana, i suoi studi proseguono a Firenze.
Nel frattempo, il padre, dopo sei anni di prigionia, torna finalmente in Italia e viene assegnato all’allora ministero della guerra, a Roma.
‘INTERINA’ AL SAN GIOVANNI
La famiglia si ricompone e si trasferisce nella Capitale, dove nel 1949 Adriana si laurea all’università della Sapienza, specializzandosi poi in Medicina di laboratorio con il professor Alessandro Fanelli Rossi.
“Nonostante che il ‘parentame’, quando era stato informato del mio desiderio di studiare medicina, mi avesse predetto una carriera da ginecologa o da pediatra”.
Ad aprile del 1950 si iscrive all’Enpam e nello stesso anno entra come ‘interina’ all’ospedale San Giovanni.
Qui trova a dirigerla una primaria donna. “Si chiamava Celeste Bucci. Era una donna non certamente amata, perché era una donna molto difficile.
Aveva la carica di primario senza però averne riconosciuto il rispetto” e forse questo faceva sì che lei fosse “pesante con i poveri medici e soprattutto con il personale”.
Di quel periodo ricorda che i medici, uomini e donne donne, erano ospitati nell’ala nobile del vecchio ospedale e che, durante la notte, qualche collega trovava molto divertente fare irruzione nelle camere dove alloggiavano le dottoresse.
All’epoca le colleghe in camice erano poche, si contavano sulle dita di una mano, e di loro non ha un buon ricordo professionale.
Più che delle loro capacità professionali, ricorda il senso di superiorità “specie di quelle che, non si sa come, erano arrivate a gradi alti”.
DONNA REALIZZATA
Quando le chiediamo cosa ne pensa del sorpasso delle donne medico e della femminilizzazione della professione, non ha una spiegazione o una ricetta da rivelare.
“Da un certo punto di vista, le donne sono molto più convinte” dice, ma quando la figlia le suggerisce che forse potrebbero anche essere più portate all’assistenza, all’attività di cura, Adriana ripensando alla sua esperienza è categorica: “Alcune proprio no!”.
Ci risponde, invece, di essere sempre stata remunerata come i suoi pari grado colleghi maschi e che piuttosto, erano le portantine donne a essere penalizzate rispetto agli uomini. “C’era un distacco notevole” conferma, stupendosi ancora.
Nel corso della sua carriera, (“sempre da ospedaliera” ci tiene a ribadire) ha lavorato in svariati nosocomi romani (“il Celio è quello che ricordo più volentieri, per la gentilezza dei colleghi”) fino ad approdare – dopo una breve esperienza da pendolare all’Inps di Siena – al Forlanini. Qui lavora fino al 1989, anno del pensionamento.
Di quel periodo lavorativo, ricorda con piacere gli attestati di stima e la fiducia del direttore sanitario e di quello amministrativo e gli incarichi ricevuti che ne conseguirono.
Come quando divenne responsabile per la valutazione medica preliminare effettuata su pazienti intenzionate a sottoporsi a una interruzione volontaria di gravidanza, o quando fu indicata per le commissioni mediche per il riconoscimento dell’invalidità civile.
Tra gli aneddoti più curiosi, rammenta il caso di una madre che tentò di ‘prestare’ la propria identità alla figlia minorenne, per permetterle di abortire, o di un paziente che pretendeva di vedersi riconosciuta l’invalidità civile perché faceva il subacqueo.
“Fare il medico – ricorda oggi con serenità – mi ha permesso di sentirmi realizzata”.
In occasione del suo centenario, la dottoressa Parente è stata invitata da Stefano De Lillo, vicepresidente dell’Ordine dei medici e degli odontoiatri di Roma, a partecipare a una cerimonia pubblica durante la quale le verrà conferito un riconoscimento.
Marco Fantini
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