Ecco qual è il meccanismo che penalizzerà i medici dipendenti pubblici con minore anzianità (e quali sono i veri motivi). Una misura che rischia di cambiare le carte in tavola per chi aveva già programmato la vita.
I medici ospedalieri appartengono al sistema pensionistico pubblico che un tempo faceva riferimento alla Cassa pensioni sanitari (Cps), dal 1996 confluita nell’Inpdap e successivamente, dal 2012, nell’Inps.
La pensione si compone di tre quote. La quota A e la quota B si calcolano con il metodo retributivo, cioè come percentuale della retribuzione pensionabile (si veda la definizione), mentre la quota C è calcolata con il metodo contributivo (cioè, si sommano i contributi versati e poi si dividono per un coefficiente che tiene conto del numero di anni per cui si percepirà la pensione o, per essere più espliciti, per il periodo di aspettativa di vita calcolato statisticamente).
L’intervento del governo che ha scatenato il malcontento nella categoria riguarda le regole di calcolo sulla parte retributiva fino al 1995.
Dal 1996 infatti si applica per tutti il metodo contributivo (con l’eccezione di alcuni con maggiore anzianità che beneficiano del metodo retributivo fino al 2011, ma comunque con un meccanismo meno favorevole, che per questo non viene toccato).
RETRIBUZIONE PENSIONABILE: COS’È
La retribuzione pensionabile è la base che si prende come riferimento per calcolare la pensione retributiva. Per i periodi fino al 1992 corrisponde grosso modo all’ultimo stipendio percepito prima di andare in pensione (quota A); per i periodi successivi è dato normalmente dalla media degli ultimi 10 anni prima del pensionamento.
FINO AL 1995
Per i medici dipendenti pubblici, i periodi lavorati fino al 31 dicembre 1995 vengono valorizzati con una tabella risalente al 1965. Era un sistema pensato per permettere a chi avesse 40 anni di contributi di andare in pensione con il 100 per cento della retribuzione.
Il sistema usato dalla Cassa pensioni sanitari (e da quelle di altre categorie, come i dipendenti degli enti locali) non era però lineare ma assegnava percentuali proporzionalmente più alte per i primi anni di carriera. Questo sia perché gli stipendi a inizio carriera sono notoriamente più bassi, sia per tutelare vedove e orfani: se un medico fosse deceduto dopo pochi anni di lavoro la pensione su cui calcolare la reversibilità doveva essere significativa.
Così, per esempio, per chi avesse lavorato solo un giorno, la pensione sarebbe stata del 23,865 per cento dello stipendio; con 10 anni di contributi la percentuale sarebbe salita al 31,819; con 20 anni al 45 per cento; con un’anzianità di 35 anni si avrebbe avuto diritto all’82,5 per cento, fino ad arrivare al 100 per cento della retribuzione, appunto, con 40 anni di contributi.
[wptb id="128386" not found ]IL NOCCIOLO DELLA QUESTIONE
Poiché questo sistema è stato interrotto a fine 1995, ormai chi va in pensione oggi beneficia solo della parte alta della tabella, cioè percentuali piuttosto elevate per periodi retributivi brevi. Il caso limite si avrebbe confrontando la pensione di due coetanei assunti a distanza di un mese a metà anni novanta: il medico diventato dipendente pubblico il 1° dicembre 1995 avrebbe diritto a una pensione pari a quasi il 24 per cento della retribuzione per il primo mese di lavoro + la pensione contributiva per i decenni successivi; una sua collega assunta il 1° gennaio 1996 avrebbe invece solo la quota contributiva relativa ai decenni lavorati e nulla di più: una differenza di centinaia di euro al mese, per sempre.
Ecco che il governo, nella legge di bilancio 2024, ha proposto di cambiare la tabella del 1965 decidendo di applicare per ogni anno una percentuale fissa dello stipendio del 2,5 per cento. La logica applicata è questa: se con 40 anni di contributi si otteneva il 100 per cento della retribuzione, allora ogni anno in media deve valere 2,5 per cento (cioè, 100 per cento diviso 40 anni). La modifica è stata comunque proposta solo per i primi quindici anni di anzianità perché oltre quelli la tabella originaria è comunque meno favorevole.
Tutto bene? Nient’affatto. Perché cambiare le regole dal 1° gennaio 2024 significherebbe cambiare sostanzialmente le carte in tavola di medici che hanno fatto affidamento sulle regole vigenti per calcolare la propria pensione e programmarsi la vita.
I TAGLI NEL CONCRETO
Si prenda per esempio il caso di una dottoressa che aveva calcolato di andare in pensione anticipata in cumulo come dipendente a inizio 2024 con 41 anni e 10 mesi di contributi: se all’ex Cassa pensioni sanitari ha fatto solo il riscatto di laurea, probabilmente avrà 8 anni di anzianità nel sistema retributivo e cioè, oltre alla pensione contributiva, avrebbe diritto al 29,865 per cento della retribuzione pensionabile. Con la nuova tabella questa percentuale scenderebbe al 20 per cento, cioè una perdita di quasi il dieci per cento rispetto alla retribuzione di riferimento per il calcolo della pensione. Anche in questo caso si tratterebbe di centinaia di euro al mese in meno, per tutta la vita.
Stessa decurtazione capiterebbe a un collega che andrebbe in pensione di vecchiaia nel 2024 all’età ordinaria di 67 anni: se non ha riscattato né laurea né specializzazione, anche per lui l’anzianità retributiva sarebbe probabilmente pari a 8 anni e la riduzione di quasi il 10 per cento.
Un trattamento singolare per chi ha fatto turni per una vita con stipendi al di sotto degli standard europei, che ha lavorato durante il Covid ricevendo al più delle pacche sulle spalle, e che probabilmente sta passando gli ultimi mesi di lavoro tamponando la carenza di personale in reparto. Ed è stata questa la scintilla che ieri ha portato i sindacati medici della dipendenza a organizzare uno sciopero.
Un’astensione dal lavoro nazionale che ha avuto punte di adesioni fino all’85 per cento, come riportato dalle organizzazioni Anaao- Assomed e Cimo-Fesmed.
Gabriele Discepoli
[/vc_column][/vc_row]