Le professioni sono sempre più declinate al femminile, ma il divario di genere ha raggiunto il 45 per cento.
È quanto emerge dal “Focus donne professione”, un approfondimento curato dall’Associazione degli enti previdenziali privati (Adepp) presentato a Roma al Museo Ninfeo, presso la sede dell’Enpam.
Il rapporto – che ha tra le sue finalità quello di individuare forme future del welfare per gli iscritti e le iscritte alle Casse – sottolinea non solo quanto già più volte denunciato, ma evidenzia un aspetto del problema che ha radici antiche, legate anche al territorio e al contesto sociale in cui opera la libera professionista.
“Questa indagine – ha detto Tiziana Stallone, vicepresidente Adepp e presidente dell’Ente previdenziale dei biologi (Enpab) – ha scardinato alcune idee preconcette sul gap reddituale di genere, mettendo in evidenza le reali esigenze delle donne. A colpirci non è stato il senso di discriminazione. Le donne, infatti, non si sentono discriminate. Quello che colpisce è la mancanza di un sostegno infrastrutturale per permettere alle professioniste di affrontare situazioni oggettive, quali la genitorialità o la cura dei propri genitori”.
“Le professioniste – ha detto Marina Macelloni, presidente dell’Istituto di previdenza dei giornalisti (Inpgi) – dedicano meno ore all’attività professionale: a fronte del 59 per cento degli uomini, che dedicano più di 8 ore al giorno, le donne si fermano al 40 per cento. Questo perché da una parte devono dedicare molte più ore alla cura dei figli e dei familiari non autosufficienti e dall’altra non sempre possono usufruire di infrastrutture sociali adeguate”.
Per Linda Laura Sabbadini, già direttrice del Dipartimento Istat per lo sviluppo di metodi e tecnologie per la produzione e diffusione dell’informazione statistica, “quello che emerge è una realtà inerente alle libere professioniste, ma anche a tutte le donne lavoratrici. Le criticità del percorso lavorativo delle donne, e in particolare la forte penalizzazione dovuta dal carico familiare, risiedono proprio nell’impossibilità di sviluppare il proprio lavoro come vorrebbero. Noi abbiamo una barriera all’ingresso e alla permanenza del mondo del lavoro molto elevata. In Italia metà delle donne non hanno indipendenza economica e autonomia. Siamo il Paese che nella classifica europea è ultimo per tasso di occupazione femminile e il peso che ha una donna, con o senza figli, è maggiore rispetto a Germania e Francia, ma anche alla Grecia”.
“Dobbiamo uscire dalla logica che questi siano problemi delle donne – ha detto Antonella Polimeni, rettrice della Sapienza Università di Roma – . Il tema della conciliazione e della necessità di politiche di welfare deve essere ancora strutturato e in alcune regioni non esiste proprio. Il problema della denatalità non lo affronteremo mai se non capiamo che il lavoro femminile è Prodotto interno lordo. Le donne studiano di più, si laureano con voti più alti, ma dopo registriamo una dispersione rispetto alla collocazione lavorativa. L’università deve essere un luogo di sperimentazione di politiche di genere ed è lì che invece notiamo la difficoltà delle donne a fare carriera. I professori ordinari donne non superano il 26 per cento”.
“I problemi legati al genere – ha detto Mirja Cartia D’Asero, amministratore delegato del Sole24Ore – sono molteplici e questo studio fotografa esattamente la realtà. Dalla differenza di reddito – dopo 5 anni dall’inizio del lavoro la donna guadagna il 20 per cento in meno di un collega uomo – al difficile ottenimento di incarichi apicali. Ci sono ancora troppo pochi ingegneri o laureate in matematica. Oggi per fortuna alcune professioni, vedi la medicina, si stanno femminilizzando. Inoltre, le libere professioniste spesso non lavorano da sole, ma presso altri studi”.
“Tre parole: focus, donne, professione – ha detto il presidente dell’Adepp e dell’Enpam, Alberto Oliveti – in esse c’è già una sintesi importante. Credo che la componente femminile nel lavoro sia la nostra chance di rilancio. Per il nostro Paese e per la nostra società. Credo addirittura che il destino del Servizio sanitario nazionale passi per l’azione delle donne e si giocherà sulle loro gambe. Nel campo del mondo del lavoro, due sono i temi che devono essere sottolineati: uno è l’accesso al lavoro e l’altro è il mantenimento qualitativo. Credo che il futuro si giochi sulle competenze, sulla battaglia di cultura, soprattutto nelle professioni intellettuali, sulle motivazioni. Così come farà perno sulla flessibilità, che non è soltanto una questione soggettiva, ma ambientale, sociale, di contesto. Importante il concetto di conciliazione che è famiglia, prole, congiunti, con figlie che poi diventano ‘madri’ dei propri genitori. E infine un’altra parola fondamentale è Pil. Alla fine, tutto si gioca sulla potenzialità di finanziamento. Per trovare il finanziamento a certe politiche di conciliazione dobbiamo fare prodotto interno lordo”.
REDDITI
La differenza di reddito dovuta al genere e riscontrabile in tutte le fasce. Già al momento dell’ingresso nel mercato del lavoro il reddito delle professioniste “under 30” è circa il 20 per cento in meno dei colleghi uomini.
Altro elemento di valutazione, trova evidenza nella storicità della presenza più massiccia delle donne all’interno di alcune categorie professionali come quelle dei biologi, psicologi, infermieri e veterinari, dove le differenze tra uomo e donna in termini reddituali fino ai 30 anni sono piuttosto contenute (mediamente il 10 per cento).
In linea più generale, un fattore che sicuramente incide sul valore medio reddituale e il costante processo di femminilizzazione delle libere professioni infatti, nel periodo 2007-2021, la percentuale di iscritte donne e cresciuta notevolmente, passando dal 30 al 42 per cento del totale, ma con grosse differenze per fasce d’età con la conseguenza che l’età media delle donne professioniste e di circa 45 anni, contro i 50 degli uomini, e tra gli under-40 le donne sono circa il 54 per cento, percentuale che decresce con l’aumentare dell’età.
CURA DELLA FAMIGLIA
Alla domanda di chi si occupa dei figli mentre lavori, il 66 per cento degli uomini ha risposto che è la compagna a occuparsene. La stessa domanda posta alle donne ha ricevuto il 17 per cento delle risposte riferite al proprio compagno. Stessa riflessione vale per le professioniste che si dedicano anche alla cura di genitori anziani e/o familiari non autosufficienti: la questione non attiene specificamente alla maternità ma più in generale a tutte le tipologie di cure domestiche.
NORD CENTRO SUD
La maggioranza delle professioniste – sia con figli che senza figli, sia del Nord, sia del Sud – ha dichiarato che l’urgenza che andrebbe prioritariamente affrontata per ridurre le disparita e quella legata all’area geografica in cui si esercita la professione e solo dopo quella legata al genere.
Una professionista che esercita la sua attività al Nord è coadiuvata maggiormente nella gestione familiare da figure esterne all’ambito familiare – ad esempio baby-sitter, asili, centri ricreativi per l’infanzia – mentre al Sud, poiché le infrastrutture sociali sono meno presenti e inevitabilmente i servizi sono più carenti, l’aiuto della famiglia risulta ancora indispensabile per garantire la conciliazione vita-lavoro. Pertanto, un elemento determinante nell’aggravare la situazione occupazionale delle madri e l’inaccessibilità dei servizi educativi per la prima infanzia. Sia per una carenza di strutture, sia per questioni economiche.
DINAMICITÀ
A fronte del 15 per cento degli uomini del Sud che si trasferisce al Nord e del 10 per cento che si trasferisce al Centro, si registra una percentuale ben più elevata delle donne che si trasferiscono: il 21 per cento delle donne del Sud si trasferisce al Nord e il 18 per cento si trasferisce al Centro.